SQUADRILLI RICCARDO

Da un’antica tradizione di famiglia ci è stato tramandato che tre fratelli Squadrilli, a nome Gaspare, Baldassarre e Melchiorre, emigrando dalla Spagna (probabilmente dalla Catalogna) si fossero fermati uno a Napoli, un altro a Troia presso Foggia, ed il terzo, dopo breve dimora a Bitonto e Ruvo di Puglia, fosse venuto in Andria. Il nome di Melchiorre è tradizionale nel ramo dimorante in Andria. Melchiorre Squadrilli, capostipite di tale ramo, visse, come sopra si è accennato, tra Bitonto e Ruvo nella prima metà del 1700: a lui successero i figli Rosaria (rimasta nubile) e Giuseppe, nati nel 1774 e 1777. Giuseppe, laureatosi a Napoli in Legge, esercitò tra detta città ed Andria. E’ quindi da Giuseppe Squadrilli che s’iniziano questi cenni non essendo del bisavo Melchiorre pervenute altre notizie documentabili nè sulla sua attività svolta, nè sul suo stato patrimoniale: Giuseppe seniore, invece, dedicatosi con passione e volontà all’avvocatura, quando tale professione era tenuta in grande stima e pochissimi ne erano i rappresentanti, potè lasciare, frutto del suo alacre lavoro, ai suoi eredi un buon appannaggio finanziario. (Difatti il palazzo che la famiglia attualmente abita ed i fondi in contrada Coppe, Capoposta, Capodacqua, Trinoggia; Torrepellegrina, Belvedere, S. Valentino, Pendio ed altri furono da lui acquistati).

Ma chi dette un forte impulso al miglioramento dell’ asse patrimoniale fu il figlio Melchiorre (più noto col suo secondo nome Vincenzo) che gli successe insieme a due sorelle rimaste nubili.

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Laureatosi anche lui in legge, esercitò per qualche anno in Napoli, ritirandosi poi in Andria per amministrare i suoi beni e limitando la sua attività professionale a qualche giudizio di sua pertinenza. Avendo in seguito intuito la possibilità di commerciare in materie da costruzione, stante la palese deficienza per farle pervenire quaggiù, si mise direttamente a contatto con importanti ditte inglesi per forniture di ferro e con fabbriche austriache per rovere di Slavonia ed abete di Stiria e Carinzia, noleggiando dei velieri che per suo conto trasportavano a Barletta dette merci. Quando però si accorse che per l’aumentato numero di concorrenti e per le diminuite richieste tale commercio non poteva essere più redditizio, si dedicò con passione all’agricoltura cominciando dai beni ereditati e dai fondi dotali della moglie Antonia Fabiani, sua ottima cooperatrice. Avendo quindi ritirato i suoi capitali dal dismesso commercio, li impiegò nei seguenti immobili:

I. – Nel 1867 acquistò da Lucia Jatta per ettari 90 in contrada « Pandolfelli» un terreno boschivo di natura fortemente sassoso e poco incoraggiante a migliorie. Ciononostante nel 1871 era già completamente trasformato in ottima piantagione di olivi consociati alla vite. Svelta la vigna dopo il quarantennio di produzione invidiabile, resta attualmente il solo oliveto che dà prodotto abbondante.

II. – La medesima coltura introdusse nei fondi estesi di S. Angelo, S. Simeone e S. Tavella, tutti da lui personalmente acquistati, nei quali del pari restano fitti e produttivi oliveti. Migliorò anche i fondi Mondeitermiti e Muridano per ettari 70.

III. – Avendo acquistate dal cav. Nannarone di Foggia, in agro di Montemilone in Lucania, un latifondo di ettari 250 interamente incolto e boscoso, lo ridusse in poco tempo ad ottimo sativo: furono fatti esperimenti di mandorleti ed erba medica, ma con esito negativo.

IV. – Ma le sue energie migliori dedicò alle piantagioni che riguardano il fondo Montecarafa pervenuto gli per vari acquisti fatti tra il 1866 ed il 1878 dai principi di Chiusano, collaterali del duca d’Andria, per l’estensione di ettari 225. E ciò sia per l’ubertosità dei terreni quasi tutti vergini, sia per l’incantevole posizione e l’aria salubre, sia soprattutto per il lontano miraggio di un acquisto dell’intero feudo dei Carafa. Basterebbe un semplice colpo di occhio, stando sugli ultimi contrafforti delle Murge che dominano i fondi, per avere una esatta visione panoramica delle migliorie apportate: laddove una volta non si vedevano che armenti al pascolo, ora si ammirano a perdita d’occhio oliveti e mandorleti imponenti, simmetricamente allineati, tra i quali si scorge la tinta smeraldina di vigneti vigorosi.

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Ma l’opera fattiva iniziata da Melchiorre Vincenzo non subì un attimo di arresto giacchè, venuto lui a mancare, i suoi figli Giuseppe e Riccardo, ambedue avvocati, si dettero a ricalcare con la medesima alacrità le orme paterne non senza interessarsi della cosa pubblica: il primo occupò attivamente per più anni un eminente posto nell’amministrazione comunale; il secondo fu presidente del Piccolo Credito Andriese, del consorzio antifilosserico, rappresentante dei proprietari a Bari presso la Prefettura, ecc.

Loro maggiore aspirazione però fu sempre l’agricoltura; sorretti ed incoraggiati dall’ esperienza e dai consigli materni, non ebbero mai indietreggiamenti chè anzi il diuturno lavoro doveva, nel 1887, essere coronato dalla gioia di vedere in parte realizzato il desiderio paterno con l’acquisto di una nuova quota del feudo Montecarafa. Negli anni susseguenti furono, sempre nel detto fondo, comprati altri appezzamenti sino a che nel 1896, unito ad un altro lotto di terreni, si attribuirono anche il fabbricato ducale.

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Senza por tempo, le migliorie furono iniziate. Avendo il genitore di preferenza impiantati oliveti, vollero, per equilibrare la produzione dei diversi generi, aumentare i mandorleti. Difatti attualmente nel solo latifondo Montecarafa esistono oltre 400 ettari di tale coltura.

Essendo la vecchia vigna, per età e fillossera, venuta man mano a mancare, si dettero a tutt’uomo alla ricostruzione su base americana dei nuovi vigneti, ottenendo dei risultati più che soddisfacenti sia per le ottime qualità di uve e sia per la quantità, tanto da raggiungere il maximum di 18 mila quintali. Istituirono un ciclo sessennale di concimazioni chimiche, specie agli oliveti: ciò risale a circa un trentennio.

Visto che l’importanza dell’azienda richiedeva un grande stabilimento vinicolo-oleario per la lavorazione dei prodotti, lo ultimarono in un breve periodo di tempo corredandolo di una vasta cantina con ottime botti, posture da olio in cristallo e mattoni, presse idrauliche, frantoi di granito, motore ad olio pesante, dinamo pel funzionamento ad elettricità, insomma di tutto ciò che di più moderno la tecnica potesse consigliare. Tale stabilimento è stato più volte visitato da personalità del campo agricolo ed industriale, meritando unanime consenso. Avendo con la loro esperienza intuito che la sola forma di compartecipazione tra proprietari e braccianti fosse il contratto di mezzadria, per i primi (sin dal 1896) l’adottarono su vasta scala nelle loro proprietà. E’ da notarsi inoltre che tale rilevante amministrazione, che in seguito rimase affidata al solo Riccardo, essendo nel 1910 venuto a mancare Giuseppe, fu vigilata personalmente sia per la direttiva pratica, sia anche per la parte contabile, non avendo fatto mai ricorso né ad amministratori né ad altri aiuti.

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Nel 1913 Riccardo Squadrilli inquadrò il latifondo Montecarafa con l’acquisto di un’altra notevole zona erbosa riducendola in buona parte in seminativo e mandorleto con vigna: degno di menzione è quest’ultimo dissodamento il cui terreno, trovandosi alle falde della collina, sembrava a molti, anche competenti in materia, del tutto inadatto a qualsiasi miglioria: a smentire queste previsioni sta il fatto che, avuto i mandorli uno sviluppo meraviglioso, tanto che la chioma di un albero rasenta quella dell’altro, tale terreno cominciò a produrre bene e subito tanto da raggiungere nel 1934 una media di 20 quintali di mandorle ad ettaro e buona parte della privilegiata e richiesta « Santoro »: per l’accesso a tali appezzamenti costruì una strada di circa Km. 3 scavata per intero su viva roccia, che richiese ingenti spese.

Finalmente nel febbraio 1934 comprò a scopo di migliorare, altri 90 ettari di terreno confinante con il Montecarafa che il venditore teneva a seminativo di scarsissima produzione ed a mandorleti in condizioni non buone.

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Il figlio Giuseppe (sposato a Luisa Cafiero), al quale quasi esclusivamente è stata affidata.la cura della trasformazione, dette subito inizio ai lavori. In meno di due anni, oltre ad avere migliorato il mandorleto, la zona tenuta sinora a semina è già ricca di un mezzo milione di viti americane e di oltre 8000 piantoni di ulivi, il tutto eseguito con alacrità e precisione moderna che desta l’ammirazione anche dei provetti agricoltori, i quali prevedono l’avvenire di una produzione con razionale sfruttamento delle forze della terra. Ora l’intera masseria Carafa si estende per oltre 800 ettari e rappresenta quasi la parte migliore del feudo dei Carafa, duca d’Andria: è sito nella maggior parte in agro di Andria e pel rimanente in quello di Minervino: viene attraversato nella sua lunghezza dalla via statale che mena appunto a questi due paesi: gli stradoni interni di accesso a ciascun appezzamento son tutti sistemati sì da rendere agevole la viabilità anche agli autotreni che ora spesso trasportano i prodotti: è munito di comode costruzioni rurali sparse nei fondi, numerose ed ampie cisterne: esistono inoltre ovili e ricoveri del personale adibito alla custodia del gregge, stalle, ecc.

Completa bellamente la non poca quantità di fabbricati (uno dei quali denominato « masseria vecchia» serviva di abitazione ai principi di Chiusano) , la maestosa mole della dimora ducale che, a distanza di tre chilometri, sembra sbarrare la via. Fu edificata verso il 1700 dal duca d’Andria ed ampliata dal conte del Vaglio il 1866: ha un vasto e tipico cortile preceduto da un androne con archi perfetti in pietra, vastissimi magazzini a pianterreno e comodi appartamenti al l. e 2. piano: possiede inoltre una grande cappella dedicata sin da tempo remoto alla Madonna del Rosario, difatti il quadro ad olio che domina l’altare settecentesco e che riproduce la Madonna con S. Caterina e S. Domenico, è di molto anteriore a quello che si venera in Pompei.

Presso la volta si rilevano motivi di archi a sesto acuto riportati anche in parecchi altri ambienti della costruzione: l’altare è l’esatto modello di quello centrale esistente fino a qualche anno fa nella cattedrale di Andria e che fu distrutto da un incendio.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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