PERRONE CAPANO FAMIGLIA

Antica famiglia, che in origine ebbe tre rami: uno in Napoli, estintosi nella famiglia Aldimari, uno in Puglia e l’altro in Calabria.

Del ramo di Napoli, che formò il ceppo originario della famiglia, scrisse l’Aldimari nella pregevole ed ormai rarissima opera: « Memorie historiche di diverse famiglie nobili così napoletane come forestiere, così vive come spente con le loro armi ecc » I vol. in 8. in Napoli nella stamperia di Giacomo Raillard MDCXCI, libro 3. par. 303, pagg. 678-680 (Della famiglia Perrone).

L’Aldimari ricorda Mario Perrone, feudatario nel 1345; Paolo Perrone, feudatario in Calabria (Zacarisé), morto nel 1563; Francesco Perrone, Presidente della R. Camera della Sommaria nel 1528; Giovanni Perrone di Cosenza, fratello di Francesco, nobile e regio secretario; il nobile Lorenzo Perrone, feudatario nel 1541; Francesco Perrone, Presidente di Camera nel 1543; Marc’Antonio Perrone, che nel 1628 possedeva annui ducati 60 di fiscali feudali sopra Quarati (Corato): Francesco Perrone, chiarissimo giureconsulto, nipote del Cardinale Lucio Sasso e dell’Arcivescovo di Sanseverino, Mario Sasso creato nel 1648 vescovo di Caiazzo e seppellito nella chiesa di S. Paolo in Roma nel 1696; Giovanni Tommaso Perrone, Vescovo di Nicastro, e i suoi nipoti Baroni di Calabria nella II metà del 1600; Aurelia Perrone, moglie di Tommaso Aldimari, barone della Valle; Matteo Perrone, barone di Comitino in valle di Noto di Messina.

Nella chiesa di S. Aniello in Napoli vi è una cappella gentilizia della famiglia Perrone di Napoli con questa iscrizione: « Mortalitatis et carnis resurrectionis memores viventes Marcus Antonius Planterius Pyrronus Patritius Neapolitanus et Angela de Stefano unanimi coniuges ad sonitum tubae sibi suisque posuerunt A. D. 1581 ».

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La famiglia Perrone di Calabria tenne in Napoli il patronato della Chiesa di S. Antonio a Tarsia, ove si leggono le seguenti due iscrizioni: a) « D.O.M. Evangelistae Durandi Filio ex illustri Perrone gente – Dancti Leonis Scandalorum Gallorum Turrosii – aliorumque pagorum Domino – qui gentilitiam nobilitatem qua militiae qua pietatio face – illustravit ob innumeras pene victorias in Tarenti obsidione solvenda reportatas – tandem templum hoc divino Paracleto sacrum fundavit splendideque dolatum – in familiae ius patronatus statuit. A. D. 1559 – quod postea auctum divo Antonio Patavino nuncupatum est – hoc grati animi monumentum – P. 99 ».

b) « Perrone prolis – avita virtutum decora qua toga qua sago parta – Andegavenses Reges Aragonique -Regys Feodorum numeribus splendide illustrarunt – magnificentiam atque pietatem hac marmora loquantur – A. D. – MDCIX »

Il ramo della famiglia Perrone di Puglia ebbe due principali propagini: una a Manduria (Lecce) e l’altra a Corato ove la famiglia possedeva annui ducati 60 sui fiscali del feudo.

Questa famiglia dette, in ogni tempo, nei suoi vari rami, in ogni secolo, contributo di uomini insigni alla Magistratura.

Oltre gli antichi altissimi magistrati ricordati dall’Aldimari, hanno lasciato ricordo di sè moltissimi altri.

Da Carmine (nato il 13 aprile 1737), valente medico, nacque Pasquale (n. 13 gennaio 1778, m. 2 luglio 1862): uomo di profonda cultura giuridica ed umanistica, R. Procuratore a Lecce, Consigliere alla Corte Suprema di Giustizia, P. Presidente della G. Corte della Calabria. Colpito in giovane età (anni 42) da emiplegia, si ritrasse a vita privata a Trani, nella sua villa, che divenne il quotidiano ritrovo dei magistrati e delle persone colte di quella importante sede giudiziaria. II figlio Giuseppe seguì le orme paterne e morì col grado di Consigliere della Corte di Cassazione di Napoli, ai tempi aurei del Mirabelli. Da Giuseppe nacquero Pasquale, Olindo e Luigi, che anche essi vestirono la toga del magistrato: fra tutti Olindo, quantunque rimasto privo della vista, si impose alla stima ed alla ammirazione della Curia, che lo ritenne degno di essere annoverato fra i grandi nomi della magistratura napoletana. La Commissione straordinaria, nominata da S. E. Orlando per la revisione della magistratura, non osò privare l’ordine giudiziario di un componente di così alto valore, solo perchè cieco, ed è rimasta celebre la frase di uno dei commissari: «Auguro alla magistratura italiana che tutti i veggenti vedano come questo cieco ».

L’altro figlio di Pasquale, Carmine fu adottato dallo zio, il Comandante Francesco Antonio Capano, ed aggiunse al suo il cognome dell’adottante. Il Capano apparteneva ad altra antica famiglia Coratina, diramazione della illustre famiglia Capano di Napoli, anzi più propriamente del Cilento, e fu una delle più notevoli personalità della provincia di Bari al tempo dei Rivolgimenti politici che agitarono l’Europa alla fine del secolo XVIII: uomo coltissimo; di temperamento vivace e di pronto ingegno, seguì con ardore i principi della rivoluzione, Repubblicano, carbonaro, milite volontario, fu assunto al grado di comandante delle truppe provinciali, chiamate col frasario romantico di quel periodo di follia collettiva, dei Veliti; perseguitò i reazionari; combattette contro le orde del Cardinale Ruffo. Caduta la Repubblica, potè a stento mettersi in salvo, fuggendo attraverso i monti della Basilicata, travestito da carrettiere e si rifugiò in Francia.

Da Carmine nacque (l0 settembre 1840) Giuseppe, che entrò in magistratura. Pretore ad Andria, Giudice istruttore a Lucera, V. Presidente di Tribunale a Napoli, Presidente di tribunale a Taranto, Consigliere di Appello a Napoli, P. Presidente di Corte di Appello, lasciò dovunque ricordo di sè non solo per la larga preparazione nelle scienze filosofiche e giuridiche, ma per il grande equilibrio, la fermezza del carattere, la serenità e l’esattezza delle sue decisioni. A Lucera rifiutò sdegnosamente di prestarsi come inquirente in un processo elettorale, col quale si voleva soffocare l’elezione del 1891 di Matteo Renato Imbriani ed affrontò una lotta veramente titanica per salvare tre innocenti condannati alla reclusione per il famoso furto al palazzo del marchese Saggese di Foggia, riuscendo a scoprire il vero autore e provocando uno dei pochissimi processi di revisione che si ricordino negli annali giudiziari; a Napoli resistette alle imposizioni di un Procuratore Generale, che pretendeva di combattere la stampa quotidiana munendosi di ordinanze di sequestro in bianco, e preferì lasciare l’ufficio piuttosto che macchiarsi di un’azione scorretta. Nell’andare a riposo, il foro Napoletano gli offrì una pergamena, originale creazione di Ezechiele Guardascione, che qui riproduciamo:

« A Giuseppe Perrone-Capano, magistrato eminente. cittadino esemplare, perchè, deponendo la toga. serbi, tra le domestiche gioie, il ricordo degli avvocati penali napoletani. Napoli. 1910 ».

Tra gli offerenti si leggono i nomi di Pessina, Manfredi, Spirito, Girardi, Arcoleo, Fioretti, Vastarini – Cresi, Marghieri, Perez – Navarrete ecc.

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Da Giuseppe nacque Attilio, che raggiunse uno dei primissimi posti nell’arringo forense in quella Curia di Trani, che, in tempi di decadenza politica, fu asilo di altissimi intelletti e faro luminoso di sapienza giuridica. In lui si fondevano i contrassegni fisici di una razza aristocratica e la luminosità di uno spirito fosforescente: facondo oratore, dotto e concettoso scrittore, mente aperta a tutte le nuove idee, che fermentarono in quell’epoca, detta ora Umbertina, ma che gettò la basi degli ulteriori meravigliosi sviluppi a cui oggi assistiamo con orgoglio.

Attilio Perrone Capano era considerato come una delle figure più rappresentative di questa nostra gente pugliese, così ricca di energie. Una banale operazione chirurgica gli troncò la carriera e la vita a soli 53 anni.

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Quando, nel 1924, così immaturamente egli scese nella tomba, i più eminenti giuristi e colleghi d’Italia che lo avevano conosciuto, tra i quali A. Salandra, L. Mortara, V. Scialoia, A. Marghieri, E. Ferri, E de Nicola, tratteggiarono sulla Corte di Appello, autorevole rivista giuridica che Egli aveva fondata nel 1900 e diretta per oltre vent’anni (v. anno XXIV, fasc. 11), un bronzeo profilo di lui.

« Egli – scrisse A. Salandra – era un giurista di vasta cultura e di provata esperienza. Ma, più che forte giurista, egli era avvocato completo, quale non se ne trovano molti, fra i numerosi professionisti, pure colti, integri, eloquenti, dei fori meridionali. Poichè dell’avvocato egli aveva, oltre la necessaria preparazione di studii, l’intuito e la passione: l’intuito che discerne a prima vista, nel poliedro di una tesi il punto centrale della valida difesa; la passione, che anima il difensore, lo persuade della sua causa e lo accende di una fiamma che può trasfondersi nel giudice. La lotta forense, quando si svolga fra due contendenti di tal valore, è spettacolo, per chi può comprenderlo, d’intesa mirabile gara di intelligenza, di finezza, di sapienza e di gusto nella espressione scritta o verbale ».

Ed Enrico De Nicola: « Egli era avvocato, nel senso ampio, completo, e – per usare un aggettivo di moda – integrale della parola perchè associava alla grande cultura la visione realistica delle cause che trattava – era oratore lucido ed elegante e, ad un tempo, formidabile ragionatore – fondeva insieme gli studi di diritto pubblico e di diritto privato in una perfetta armonia di pensiero giuridico, che le esigenze professionali non riuscivano mai ad alterare -, possedeva non soltanto dirittura di carattere e profondità di sentimento, ma anche quella nobiltà intellettuale che nell’adempimento dei doveri forensi non è meno necessaria di tutte le altre doti, che, dagli insegnamenti di Cicerone, ai due memorabili discorsi pronunziati, or è mezzo secolo, da Giuseppe Zanardelli al Consiglio dell’Ordine di Brescia, sono state sempre richieste per coloro che aspirino al grande onore di vestire la toga ».

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Il ramo della famiglia Perrone di Corato venne riconosciuto dalla R. Commissione di nobiltà di toga, ossia di II grado, in persona di Pasquale Perrone seniore e discendenti, in occasione dell’ammissione dell’altro figlio di Carmine, Francesco, nel Reggimento delle RR. GG. del Corpo, che, com’è noto, era composto di nobili di I. e di II grado. Riconoscimento che venne motu proprio riconfermato con l’ammissione di Raffaele Perrone-Capano di Giuseppe e Giuseppe Perrone fu Olindo nel S.M.O. di S. Giorgio.

La famiglia Perrone è imparentata iure coniugi o con varie famiglie nobili, appartenenti al patriziato dell’ex reame di Napoli; (de Raho, della Ratta, Carducci Artemisio, Sansone di Torrefranca, Burali d’Arezzo, ecc.).

Lo stemma è formato da uno scudo azzurro sormontato da capriolo in argento con nei tre spazi risultanti due Q e una P.

Com’è a tutti noto, le gloriose tradizioni della famiglia Perrone-Capano sono tuttoggi luminosamente perpetuate e la fervida opera di Attilio, che, nel primo venticinquennio di questo secolo, diede ad essa un poderoso impulso, continua mirabile nei fratelli e nei figli.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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