PELLICCIARI FAMIGLIA

La famiglia Pellicciari è di Modena dove esiste tuttora. La consorte del poeta Tassoni, autore della Secchia Rapita, fu una Pelliciari.

Un Gerolamo Angelo Pellicciari, chiaro magistrato, fu, per ragioni politiche, verso la fine del 1400, esiliato dal Signore di quella città. Rifugiatosi a Roma, conobbe il Principe Orsini, Duca di Gravina, il quale in una visita a quel suo feudo si fece accompagnare dal Pellicciari, il quale, innamoratosi del territorio e dei millenari boschi di Gravina, già luoghi di delizia dell’Imperatore Federico di Svevia, vi si stabilì definitivamente.

Alla piccola proprietà acquistata subito dal Gerolamo Angelo, dai figli e discendenti, tutti appassionati tenaci e laboriosi amatori della terra dell’agricoltura e dell’industria armentizia, ben altre ne furono, col frutto di detto lavoro ed intelligenza, acquistate. E finalmente nel 1803 un Filippo Pellicciari aggiunse ancora al già importante patrimonio la vasta tenuta dei « Pantani » di Zialana, acquistata dalla Baronale omonima famiglia estinta; ed il vasto bosco del tenimento di Altamura – Toritto, acquistato dal Barone Pantaleo di Taranto.

Il Filippo Pellicciari, grande esempio di rettitudine, laboriosità e moralità, come si deduce dal suo testamento, che destò meraviglia ed ammirazione nei suoi contemporanei, fu oltremodo benefico verso tutti i suoi dipendenti e salariati che numerosissimi lavoravano e vivevano nella sua vasta proprietà, tenuta tutta in amministrazione diretta, tanto che una leggenda popolare racconta che i magazzeni, dove si chiudevano tutti i legumi prodotti dalle sue terre, serventi soltanto per distribuirsi ai poveri bisognosi del paese, per miracolo divino si ritrovavano pieni quando si erano già vuotati. E’ sepolto nella Chiesa di San Domenico in Gravina e la lapide sul suo sepolcro lo ricorda munifico e benefattore e padre di ben 17 figli.

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Morì nel 1845 per un calcio del cavallo di un generale dell’esercito Borbonico il quale egli ospitava nella sua casa in occasione della famosa fiera di Gravina, la più importante in quell’epoca del Reame di Napoli. E’ rimasto famoso in famiglia il suo detto (che oggi è quello del grande Duce d’Italia): “I figli sono ricchezza”! Infatti a 63 anni lasciò la vedova, Nobile Cursoli Cifarelli di Altamura incinta al settimo mese, e se fosse vissuto altri pochi anni, altri figli si sarebbero aggiunti ai 17 che vissero tutti ad età avanzata. I suoi congiunti furono Don Francesco Saverio, missionario, che morì in Napoli in concetto di Santo e Don Vito Agostino della Collegiata di San Nicola in virtù di relativo Decreto di nomina di Re Gioacchino Murat.

I numerosi figli maschi di Filippo Pellicciari, con alla testa il Pasquale, tutti studenti a Napoli, si buttarono a capofitto, nel 1848, nei moti della Rivoluzione, col pensiero e col cuore rivolti alla capitale Sabauda ed al suo magnanimo Re Carlo Alberto.

Furono sulle barricate, furono arrestati, espulsi dai Convitti di Napoli; ed il Pasquale, già laureato Dottore in Giurisprudenza a soli 19 anni, in intima intesa col Settemhrini, Poerio, Cosenz ed altri illustri patrioti del tempo, fu atrocemente perseguitato dalla polizia borbonica e rinchiuso nel Castello di Sansevero il e poi nelle prigioni di Castellaneta e di Altamura.

Liberatone, continuò con ogni sua energia a prodigarsi per l’unità della Patria, fino al punto di essere segnalato come il più temibile rivoluzionario del Regno delle due Sicilie, con il conseguente ordine dell’Intendente Aiossa di Bari di catturarlo vivo o morto. Egli miracolosamente sfuggì, burlandosi del cordone del gendarmi che cingeva la casa. E venne il 1859-60! Come rilevasi da un suo Assento di servizio, fu il primo ad innalzare nelle Puglie il Tricolore, invitando con una astuzia in casa i gendarmi borbonici, disarmandoli e facendo loro gridare dalle finestre di Casa sua: “Viva l’Italia, Viva V. Emanuele di Savoia!”.

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Prese parte a tutto il movimento dell’Indipendenza, e con il Rogadeo di Bitonto e con il De Laulentis di Santeramo fece parte del governo provvisorio della Terra di Bari.

Ebbe in seguito incarichi delicatissimi dal Governo, fra i quali, Capo della polizia a Bari per soffocare la reazione borbonica e così pure in molti comuni della Capitanata e del Gargano, di sedare ribellioni ad Avellino, e dal Generale Pallavicini quello di distruggere il brigantaggio politico, riuscendovi appieno, catturando e facendo fucilare numerosi briganti.

Fu camicia rossa garibaldina e poi capo dello Stato Maggiore della Brigata Peuceta. Conseguitasi l’unità della Patria, rivolse tutta la sua energia ed intelligenza al suo paese natìo ove fu per moltissimi anni Sindaco e Consigliere provinciale.

Il risanamento completo di Gravina con opere colossali per quei tempi è tutto suo merito; l’attuale Università di Bari, già Ateneo, trovò in lui il più tenace ed autorevole suggeritore.

Le attuali strade statali Gravina-Spinazzola per 30 Km., Gravina-Irsina per 27 Km., Gravina Corato per 40 Km. sono state energicamente volute e costruite per opera sua, oltre ad altre importanti arterie comunali e consorziali nel vasto tenimento di Gravina. Sistemata così la sua città natìa rivolse in ultimo tutta la sua incredibile attività e il suo poderoso ingegno alla diletta famiglia, anche perchè il patrimonio avito era stato di molto assottigliato negli anni della sua vita pubblica e per le diverse divisioni tra i numerosi fratelli. Ricostruì il perduto ed aumentò il patrimonio con un’amministrazione modello, impiantando una azienda diretta sui 4000 ettari di terreno di proprietà, con centinaia di salariati fissi e migliaia di avventizi nei tempi di maggior lavoro; allevando sino a 4000 ovini, 300 vacche lattifere, 100 cavalle per produzione e centinaia di buoi, muli e cavalli da lavoro. Nulla ha mai chiesto di onori od altro e solo pochi mesi prima della sua morte, dietro pressanti premure del Barone Serena, allora Sottosegretario agli Interni, furono dai suoi famigliari ed a sua insaputa inviati alla Segreteria del Senato del Regno carte e documenti delle sue benemerenze, per l’eventuale sua nomina a Senatore.

Ma la morte lo colse e le carte sono ancora negli archivi del Senato.

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Un’altra bella figura della famiglia Pellicciari fu il giovane Giuseppe che forse avrebbe imitato e raggiunto lo zio Pasquale di cui dianzi.

Egli educato e temprato per ben dieci anni alla severa disciplina dei discepoli di San Benedetto a Montecassino, passò alle Scienze sociali di Firenze desiderando avviarsi alla carriera diplomatica.

Ma la sua Gravina era in preda alle fiamme rosse del socialismo nel culmine della feroce lotta di classe, ed appena ventunenne invitato a tentare la salvezza del suo paese natìo, lasciò Firenze e fu eletto con quasi plebiscitario numero di voti Sindaco di Gravina. L’aspettativa non fu delusa, e la sua giovinezza non impedì una saggia e avveduta amministrazione, tale da essere letteralmente adorato dall’intero paese nonchè dai più accesi del partito rosso che si piegarono dinanzi alla sua bontà e intelligenza. Morì tragicamente poco più di ventiseienne, accompagnato al sepolcro dal pianto di tutta Gravina e fra la commozione dell’intera provincia di Bari. Fu commemorato al Parlamento Italiano per le sue benemerenze e come il più giovane Sindaco d’Italia.

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Il ramo Pellicciari, trasferitosi da Modena a Gravina, è attualmente diviso in parecchi rami di cui però il più importante è quello di cui dianzi, rappresentato dai viventi fratelli Filippo e Pasquale, la cui madre, dei Baroni Federici D’Abriola, apparteneva alla nobilissima famiglia Federici da Montalbano Jonico, investita da Re Carlo D’Angiò del feudo di Abriola. I detti fratelli per naturale atavismo, molto appassionati alla campagna ed all’agricoltura fino a pochi anni addietro, hanno continuato nella nobile tradizione famigliare di tenere in diretta amministrazione l’avito patrimonio, ma per supreme necessità di famiglia, causate da irreparabili sventure, hanno dovuto dedicarsi alla educazione ed istruzione dei figli. Così il Pasquale Pellicciari dall’amore e dalle cure pei suoi figliuoletti orfani della madre, fu costretto suo malgrado a fittare le sue proprietà, che gestite direttamente avevano bisogno di ininterrotta vigilanza e completa dedizione. Ma mentre egli vagheggiava di trovare ogni aiuto e la realizzazione delle sue migliori speranze nel diletto figliuolo Tommasino, questi appena ventiduenne laureato in Giurisprudenza alla Università di Roma, venne a mancare alla famiglia e al paese di cui era una sicura promessa ed ai severi studi giuridici, e si spense sopportando sino all’ultimo il suo Calvario con spartana rassegnazione e fermezza. Sotto questo terribile colpo del destino, il Pasquale Pellicciari, versatissimo in studi storici ed instancabile collezionista in numismatica e filatelica, sentì abbattersi dall’atroce sventura l’anima nobilissima e trovò solo conforto nell’amore e nelle cure per gli altri suoi figliuoli.

La proprietà dei suddetti germani Filippo e Pasquale Pelliciari è stata ben frazionata e su di essa lavorano, vivono e prosperano numerosi affittuari e lavoratori. I detti fratelli hanno ancora con ulteriori acquisti migliorata e valorizzata la proprietà, e dove sorgevano meschini casolari per ricovero di operai ed animali, sono stati costruiti grandi stalloni, magazzeni e comode soprabitazioni, moltissimi acquari ed ovili, trasformati magri pascoli ovini in terreni coltivato a grano, sterminati spineti di misero pascolo caprino in mandorleti ed uliveti, giuncaie pantanose, malariche ed improduttive in ortali e noceti.

Molto ammirata è la trasformazione di un umile ovile per pecore ai piedi del bosco comunale di Gravina, in comoda villa padronale con annesso vigneto e frutteto, e tutto il circostante nudo pascolo ovino, attualmente convertito in bellissimo parco le cui innumerevoli piante sono state fornite dai primari stabilimenti orticoli di Pistoia.

Ancora un’altra grande ed ammirata villa nei pressi del Castello di caccia dell’Imperatore Federico di Svevia sorge là dove prima non era che una zona incolta tufacea e pietrosa.

Dimodochè pure ai tempi odierni in cui la pressione tributaria fa stringere i cordoni della borsa a tanti cittadini, ma che è pur necessaria per il sacro dovere di dare alla Patria i mezzi per diventare potente e rispettata, così come la vuole il gran Duce, i Pellicciari non si stancano di spendere, per sempre migliorare e mantenere la proprietà, frutto di secolari sacrifizi ed operosità dei loro maggiori; e perciò manovali, muratori, falegnami e fabbri vi sono sempre in movimento. Fin dal 1905, 31 anni or sono, i Pellicciari hanno insistito presso i contadini di Gravina per la sistemazione delle loro famiglie in campagna, volendo prendere ad esempio la conduzione della proprietà così come nell’Italia Centrale e Settentrionale; hanno insistito ma inutilmente per la stabilizzazione delle famiglie nella terra da essi coltivata, pur assumendosi il peso di costruzione di case coloniche a tutte loro spese, così come senza chiedere mai un soldo di sovvenzione allo Stato hanno affrontato la enorme spesa di tutte le altre migliorie nella loro proprietà, ma sempre invano.

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La principalissima causa di questa riluttanza è dovuta alla millenaria consuetudine dei nostri contadini a ritirarsi nel paese molto prima del tramonto del sole e sopratutto alla nessuna abitudine delle donne del nostro popolo ad abitare la campagna coltivata dal marito, dal padre, dal fratello, ed in linea secondaria, a qualche posto ancora malarico, all’abigeato e numerosi ladruncoli di campagna.

Ma quando i nostri fertili territori saranno costellati da case coloniche abitate dalle famiglie dei nostri bravi contadini, così come già si vedono nell’agro Pontino, che il genio e la grande umanità del Duce ha redento, allora si sarà fatto ancora un altro passo gigantesco nell’agricoltura italiana meridionale, ed i su lodati fratelli Pellicciari meglio appariranno come benemeriti precursori e sollecitatori dello sviluppo agricolo del più vasto territorio della provincia di Bari, qual’ è quello di Gravina di Puglia.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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