MANARA PIETRO

Pietro Manara nacque a Brescia nel 1855 da nota famiglia cremonese; il padre era funzionario dell’Amministrazione delle Finanze dell’allora I. R. Governo austriaco del Lombardo Veneto, da cui disertò nel 1860 per aderire al Risorgimento Italiano.

La madre, Giuseppina Rossi, pure di famiglia cremonese, era sorella del celebre pittore Angelo Rossi, le cui tele ed acquerelli sono conservati nell’Accademia di Brera.

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Rimasto giovanissimo orfano del padre, fu allevato dallo zio, Don Pietro Manara, primicerio e vicario della storica ed importante parrocchia di Fornovo-Caravaggio, sacerdote di eccezionale cultura e di sentimenti elevatissimi di amor patrio, famiglia e religione. Tale scuola, l’ambiente elevato e morale in cui ha vissuto, la bontà della madre, hanno influito a foggiare in lui quel carattere tutto dirittura e bontà, dedizione al dovere, alla giustizia, alla famiglia, spinti fino allo scrupolo, che ha sempre avuto nella sua vita. Frequentati gli studi classici, prima a Bergamo e poi a Milano, mentre il fratello Carlo si recava a Torino a frequentare il Politecnico (di dove uscì colto ingegnere, apprezzatissimo poi nel campo difficile delle irrigazioni e della idraulica, in cui si specializzò), egli, volendo rendersi indipendente, si recò a Genova, dove iniziò la carriera in importanti società di assicurazioni.

Durante il servizio militare, prestato per tre anni a Rimini presso il l0. Fanteria (dopo trasferito definitivamente a Bari), si distinse e fu apprezzato per la cultura e tenacia con cui collaborava agli studi matematici degli ufficiali dello Stato Maggiore; approfittava delle ore libere per studiare ragioneria e francese, e conseguiva presso l’Istituto di Rimini l’abilitazione in ragioneria e nell’insegnamento del francese. Ripresa a Genova la carriera assicurativa, si affermava specialmente nel dirigere l’ufficio liquidazioni di avarie, e diveniva prediletto, stimato e apprezzato con paterno affetto dai più noti Maestri dell’epoca, quali il Mingotti, il Gambetta, il Mackenzie ed altri direttori delle più importanti società italiane.

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Nel 1887 a Bari, costituitasi la Società « Puglia », gli stessi amministratori si proposero di aggiungere alla fiorente società di navigazione una società di assicurazioni. Svolsero trattative con Genova per avere un tecnico capace di dirigere la società, ed i direttori delle Compagnie genovesi furono concordi nel designare il Manara e nel convincerlo a venire a Bari. Fu così costituita la « Pugliese », di cui egli fu direttore, portandola a vita brillante e promettente, fino al 1896, epoca in cui gli amministratori, con la mentalità troppo timida e retrograda dei nostri commercianti di allora, impressionati dalla momentanea crisi che in quegli anni colpiva il mercato assicurativo ed aveva travolto alcune importanti compagnie svizzere, senza alcun giustificato e serio motivo, preferirono liquidare la società.

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Il Manara continuò in proprio il lavoro di assicuratore e di liquidatore di avarie, raggiungendo le massime affermazioni sia nel campo assicurativo, dove si specializzò sopratutto nel ramo marittimo, sia come commissario e liquidatore di avarie. Fu professionista noto ed apprezzato, sia in Italia che all’estero, per la sua profonda competenza, frutto di severa preparazione e di continuo studio, uniti ad una mentalità permeata dal sentimento della giustizia e dell’equità. Tali requisiti lo fecero eccellere nella professione di R. Liquidatore, la cui nobile ed antica funzione era appunto quella di decidere de aequo et bono, giudice arbitro eletto delle parti, nè poteva adattarsi ai più recenti sviluppi della professione, che in questi ultimi anni tendono in effetti a sostituire all’unico liquidatore arbitro imparziale, un collegio di liquidatori in cui ognuno tende a sostenere gli interessi della propria parte. Tempra di eccezionale e tenace lavoratore, non sapeva vivere lontano dal lavoro, cui si dedicò fino agli ultimi giorni della sua vita, chiusa il 1. febbraio 1935 da un attacco di polmonite, quando, malgrado l’età di 70 anni, la sua fibra era ancora forte e robusta.

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Ebbe sempre un culto per la sua famiglia: alla morte della sua prima figlia, nel 1900, unì il suo dolore a quello di un altro padre, Enrico Nannei, che aveva trovato compenso al suo dolore fondando in Bari l’Ospedaletto dei bambini, e si dedicò a quella pietosa istituzione con affetto, istituendo e mantenendo a sue spese un lettino a nome della figlia scomparsa « Bianca ». Fu così lanciata l’idea, che poi trovò numerosi. proseliti ed ebbe larghissimo sviluppo, anche in altri Istituti, dei lettini a ricordo di persone care. All’Ospedaletto dedicò sempre le sue cure con passione, e negli ultimi anni ne fu Presidente, carica, che dopo la sua morte è stata dal Consiglio di Amministrazione, conferita al figlio che continua mirabilmente le paterne tradizioni sia dal lato professionale che morale. Fu appunto sotto la sua presidenza che l’Ospedaletto ebbe il massimo sviluppo, amministrativo, edilizio e tecnico.

Durante la sua vita non appartenne mai ad alcun partito politico, pur avendo avuto fra i suoi congiunti molti uomini politici (il cognato De Nicolò, il cugino Balenzano). Entusiasta però fino al fanatismo per ogni azione a carattere nazionale, appoggiò con tutti i mezzi possibili l’azione fiumana di Gabriele D’Annunzio. Mentre il figlio dirigeva il Comitato Barese pro Fiume, che tanto fece per la Causa e che meritò i più ambiti elogi da Gabriele D’Annunzio e da Benito Mussolini, egli, insieme alla moglie, organizzò la venuta a Bari di un gruppo di bimbi fiumani, che trovarono ospitalità nella sua villa.

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La sua tarda età non gli permetteva di partecipare con l’azione ai movimenti antibolscevici del 1919-22, ma ne appoggiava l’idea, e incitava il figlio, che fu segretario della Sezione Nazionalista Barese dal 1919 e fiduciario dei Fasci di Combattimento nel 1920. Nel luglio 1924, l’ondata quartarellista seguita all’episodio Matteotti, lo riempì di tale sdegno che, per la prima volta in vita sua volle ufficialmente entrare nelle file di un partito politico, chiedendo la tessera del Fascio. Non volle mai cariche, rispondendo sempre alle varie sollecitazioni, che i posti di comando dovevano essere dati ai giovani.

La moglie, Gilda Capriati, di antica famiglia barese che tanta parte ha avuto nella storia della nostra città negli ultimi anni del periodo borbonico e nei primi del Regno d’Italia, e di cui più volte si occupa il De Cesare, fu la sua compagna affettuosa e fedele, anch’essa vissuta unicamente di amore per la famiglia e per tutte le opere benefiche e patriottiche. Organizzò, con D. Fulvia Perotti, il comitato di Assistenza Civile durante la Guerra, Infermiera della C.R.I., Presidente del Comit. per le bambine di Fiume, fu fra le fondatrici del Fascio Femminile, di cui tuttora è una delle dirigenti.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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