ROMANAZZI CARDUCCI PRINCIPE

Don Guglielmo Romanazzi Carducci è l’erede degno di una tradizione di nobiltà che ha origini lontane e che si collega ad un Romanazio che nel 1100 compare per la prima volta in un antico documento interessante la storia del Comune di Putignano. Nobile famiglia quindi, di stampo prettamente putignanese che, volta a volta, nelle sue multisecolari vicende, esprime personalità illustri nelle armi, nella beneficenza, nella redenzione terriera, nella politica.

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Nel 1200 la storia di Putignano ci rivela un Giovanni Antonio Primo, di questo Casato, che dimostra ardenza combattiva, volontà d’indipendenza, energia di comando.

Capitano d’armi come lui, balza più tardi la bella figura di Giuseppe Natale, dalle spalle quadrate, dall’audacia meditata e feconda, dalla forza trascinatrice e proselitistica.

Siamo al 1400 e le lotte per le libertà comunali non si sono ancora spente: egli, assecondato dai suoi fedeli, si addimostra guidatore oculato e nello stesso tempo ardimentoso, uomo di cuore e di giustizia.

Più tardi, nel 1500, un altro Giovanni Antonio Romanazzi lotta contro il Conte di Conversano, invadente ed aggressivo, gli tiene fronte energicamente e battaglia sotto le mura di Putignano.

E così questa tradizione di nobiltà Spirituale, di fierezza e di prontezza guerriera dura ininterrotta fino al 1780, fino a quando cioè si vanno spegnendo le egemonie feudatarie. Di questi tempi un Giuseppe Natale Romanazzi sposa una Rachele Carducci di nobilissimo casato tarantino, la quale porta nella nuova sua famiglia il tesoro della sua intelligenza, della sua gentilezza, della sua capacità organizzativa.

E’ lei che dà nuovo tono alla famiglia Romanazzi, ragion per cui i suoi eredi ne tramandano la memoria con l’aggiunzione del di lei cognome a quello patronimico.

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I Romanazzi Carducci esprimono nei primordi del 1800 una grande figura di uomo, illustre per dottrina, per patriottismo, per appassionato amore alla Terra Pugliese. Si tratta di Giuseppe Maria Romanazzi, che fu deputato al Parlamento del 1848 ed una delle personalità più preclare del nostro Risorgimento.

Egli nacque il 28 gennaio 1796, studiò nel seminario di Conversano e fece stupire specialmente per la sua spontaneità nel verso latino.

Si laureò in legge in Napoli e si perfezionò a Parigi.

Fu valoroso avvocato e scrittore di moltissime ed apprezzate opere economiche e giuridiche, fra le quali una sul Tavoliere di Puglia, lodata dall’Accademia di Scienza di Francia ed una sui problemi proposti dalla Deputazione Provinciale di Granata per estirpare la mendicità ed il vagabondaggio col lavoro, opera che raccolse il plauso del corpo accademico della Università di Granata e dello scrittore spagnuolo Lhorende.

Ritornato in patria, insieme con l’arcidiacono Luca di Samuele Cagnazzi di Altamura, fu prescelto quale rappresentante del Barese nel settimo Collegio Scientifico, tenutosi in Napoli dal 20 settembre al 5 ottobre 1845.

Fu sindaco, consigliere provinciale, ed il 30 aprile 1848, uno dei 13 deputati eletti al Parlamento Nazionale Napoletano. Formulò un Regolamento della Camera, che fu spedito in Francia dall’ Ambasciatore, come meritevole di essere adottato.

Dopo la caduta del Parlamento e della Costituzione, si ritirò a vita solitaria, mettendo così fine al suo pellegrinaggio per le più attraenti contrade europee.

Di lui restano ancora inedite le seguenti importanti opere: Ricerche intorno all’indole ed al governo delle nazioni – Filosofia e dottrina di Giovan Battista Vico – Progetto di legge sul bonificamento delle terre paludose e malsane – Sul voluto tardivo e minimo incremento della popolazione del Regno di Napoli contro le opinioni del De Agostinis.

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Poscia troviamo un Lodovico Romanazzi che è amico personale di S. M. Francesco II di Borbone.

Le vicende politiche che distrussero questa Monarchia, trovarono in Leonardo Romanazzi Carducci un liberale desideroso di vedere rinnovellata la vita spirituale, morale e politica del Mezzogiorno d’Italia.

Noto ed apprezzato per questi sentimenti, egli fu Comandante provinciale della Guardia Nazionale e, dopo il 1860, fu per venticinque anni sindaco di Putignano, amato e venerato da tutta la popolazione, rispettato e stimato dalle gerarchie provinciali.

E’ di questi tempi il rifacimento del Palazzo che i Romanazzi Carducci avevano acquistato fin dal 1800 dai Balì di Malta e che ergeva le sue mura severe accanto alla monumentale cattedrale dedicata a S. Pietro.

Questo superbo edificio del secolo XIV fu adattato alle esigenze moderne con chiaro senso d’arte e con saggia distribuzione degli ambienti. Non mancò la costruzione di un giardino pensile che è una delle più suggestive gemme del patrizio palazzo.

Giungiamo così a Giuseppe Natale che fu signore ed agricoltore di grande prestigio. Egli sposò la baronessa Giulia De Notaristefani.

Da lui, nonno del vivente don Guglielmo, nacquero Giovanni Antonio, Guglielmo, Giuseppe, Orazio, Lorenzo, Lodovico e Rachele.

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Fu Giuseppe Natale ad acquistare il feudo di Palagiano, appartenente al Principe Caracciolo Cicinelli, e che più tardi avrebbe rappresentato un centro imponentissimo di rinascita fondiaria. Col feudo Giuseppe Natale acquistò tutti i titoli che al feudo stesso erano connessi, fra gli altri quello di Marchese di Palagiano, che gli fu riconosciuto da Ferdinando II.

Il maggiore dei figli, Giovanni Antonio, fu erede del marchesato. Egli nacque il 22 marzo 1847, sposò la baronessa Maria d’Amely Melodia, da cui ebbe tre figli, don Guglielmo, Giulia, che andò sposa al marchese Piromallo Capece Piscicelli ed Amelia che sposò il barone Magrì di Gioiosa Jonica.

Si devono a Giovanni Antonio i dissodamenti delle grandi tenute famigliari possedute in contrada Frassineto, fra Gioia e Putignano; si deve a lui il restauro del castello di S. Pietro Piturno posto sul punto più alto dell’agro putignanese, proprio là dove sorgeva l’acropoli della vetusta città italiota. Questo castello conosceva le cure e l’amore di Giuseppe Maria Romanazzi, che ne aveva fatto il suo romitaggio, e che l’aveva denominato « Villa Pensosa ».

Giovanni Antonio Romanazzi fu così uno degli antesignani della redenzione agricola della Terrà Pugliese, e pertanto gli furono grati i suoi concittadini che lo confortarono dei loro voti amministrativi e lo mandarono per moltissimi anni come loro rappresentante al Consiglio Provinciale. Egli occupò moltissime cariche pubbliche, nelle quali portò il tesoro del suo ingegno vivace, del suo buon senso, della sua nativa signorilità.

Egli morì il 15 maggio 1926, mentre era preconizzato Senatore del Regno e fu compianto dai suoi concittadini e da tutti coloro che avevano imparato ad apprezzarne la dirittura morale, la squisita bontà, la passione per l’agricoltura.

Moltissimi Istituti di beneficenza del suo paese conobbero allora il suo spirito caritativo ed il suo amore.

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Degno erede di questa tradizione è stato don Guglielmo che, nato il 26 maggio 1881 e conseguita la licenza liceale dell’Abbazia di Cava dei Tirreni, raggiunse Napoli e si iscrisse a quella Facoltà di Giurisprudenza. Dotato di fervida intelligenza e desideroso di affrontare la carriera diplomatica, passò più tardi a Firenze ove frequentò quella Scuola di Scienze Politiche. Chiamato per la leva alle armi, egli fu allievo ufficiale e quindi sottotenente dei Cavalleggeri di Lucca.

A contatto con le nuove seduzioni e coi nuovi richiami di che è ricolma la vita delle armi, egli vi si dedicò con vivo attaccamento, sicché le primitive elezioni furono scavalcate in pieno dalle nuove.

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Nel 1904, mentre era di stanza a Napoli, dove erasi brillantemente affermato come ufficiale colto, gentile ed ardimentoso, quasi a rinverdire una vecchia e gloriosa tradizione familiare, conobbe ed amò donna Giulia contessa Saluzzo di Corigliano Principessa di Santo Mauro, appartenente ad una delle più nobili famiglie italiane.

Il matrimonio che ne seguì ebbe il sorriso di una dolce creatura femminile, di Maria Alasia, fiore di gentilezza e di bontà, che nel 1932 è andata sposa al capitano Mario Lombardo, duca di Cumia.

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Col matrimonio don Guglielmo aveva avuto in donazione dal padre il feudo di Palagiano. Le responsabilità inerenti a questa acquisita libertà dominicale, e forse la istintiva brama covante in lui propositi bonificatori e trasformatori, lo spinsero ad abbandonare la divisa ed a dedicarsi con ardore di neofita alla cura della sua grandiosa proprietà.

Sviluppò quindi negli anni che precedettero la guerra la trasformazione che era stata iniziata dal padre, ed in questa fatica egli pose non soltanto la sua ostinazione di pugliese saggio e volitivo, ma benanche il superiore miraggio di contribuire, con l’esempio, a rafforzare la sparuta pattuglia dei latifondisti coraggiosi e benemeriti dell’agricoltura nazionale.

Suddiviso il feudo in masserie, disciplinò il regime delle acque, iniziò l’appoderamento prevenendo così la illuminata azione del Regime, i nuovi orientamenti della colonizzazione interna dettati dalla volontà lungimirante del Duce.

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Venne la guerra, ed egli fu per molti mesi al fronte, ed anche in qualità di ufficiale di ordinanza di S. E. Grandi. Fece interamente il suo dovere di soldato e quando nel 1919 fu congedato, tornò alla sua passione terriera, intensificando la trasformazione dei suoi beni ed allargando sensibilmente la sua benefica azione di pioniere della rinascita agricola meridionale.

Durante questa sua fervida azione non dimenticò i suoi doveri verso i pubblici enti e fu pertanto consigliere comunale per dodici anni e consigliere provinciale per il mandamento di Palagiano – Mottola prima che i Consigli Provinciali fossero disciolti. Nei due consessi egli portò un verace contributo di consigli e di ammaestramenti rivenienti dalla conoscenza dei problemi locali, dalla sua capacità di organizzatore ed amministratore diligente ed intelligente della sua azienda terriera.

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Il Fascismo della vigilia lo trovò nelle posizioni avanzate, tant’è che fu tra i partecipi alla Marcia su Roma e tra i fondatori del Fascio dei suo paese.

Egli alternava, tra Putignano, Palagiano e Napoli, le sue residenze, e quando il Teatro S. Carlo, afflitto da una forte crisi, ebbe bisogno di un organo che ne avesse mantenute in vita le gloriose tradizioni artistiche, fu a don Guglielmo Romanazzi che le alte gerarchie partenopee pensarono subito, come a colui che avrebbe potuto porgere lime vitali all’organismo sancarliano esaurito e depauperato.

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Consigliata la creazione di un Ente Autonomo, don Guglielmo Romanazzi passò immediatamente dalla ideazione alla realizzazione e fu perciò a capo, nel 1927, dell’Ente Autonomo del San Carlo, ente che potenziò al massimo le possibilità ricreative e spirituali del glorioso teatro. Egli potè dare nova luce e nuovo lustro a questo vetusto istituto perché dotato di rara sensibilità e di sottile buon gusto.

Fu appunto durante i due anni di direzione di questo ente che il San Carlo potette offrire ai suoi frequentatori le prime edizioni di « Nerone» di Mascagni e della « Turandot» di Puccini.

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Altre importanti manifestazioni artistiche furono tenute a battesimo da questo signore eccezionale. Non possiamo dimenticare infatti che unicamente per ripristinarne le funzioni eminentemente culturali ed educative, egli ebbe la gestione del Petruzzelli di Bari per quattro anni, offrendo spettacoli memorandi per grandiosità e proprietà scenografica, per notorietà e credito degli artisti lirici che vi parteciparono.

Negli incarichi che gli sono stati volta a volta affidati, egli è stato sempre un animatore. Lo sanno i componenti del Consorzio Agrario di Castellaneta che lo hanno come presidente; lo sanno i proprietari di beni affittati, la cui sezione egli presiede alla Federazione Agricoltori di Taranto; lo sanno i militi della nuova coorte di Putignano che lo hanno come loro comandante (egli è da 7 anni seniore della Milizia); lo sanno infine i cittadini di Putignano che da due anni si beneficiano della sua attività podestarile, complessa per iniziative tendenti a tonificare la vita economica, spirituale, scolastica, igienica e politica del paese.

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Per concessione sovrana è stato dato a lui ed alla sua nobile signora il titolo di Principe di Santo Mauro che è un vecchio titolo di casa Saluzzo rispondente al feudo omonimo posto fra Rossano e Corigliano Calabro.

Ma nel 1931 S. M. il Re si è degnato di nominarlo Principe e di affidare il titolo al di lui stesso cognome.

E mai concessione nobiliare sovrana fu meglio meritata di questa, se si pensa che alle benemerenze d’ordine privato e pubblico, di cui abbiamo parlato più sopra, don Guglielmo accoppia un vivo senso di umana solidarietà che gli sollecita intorno il consenso e le simpatie generali.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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