RICCHIONI FRANCESCO PAOLO

La nostra borghesia tanto bistrattata durante gazzarra demoliberale dell’anteguerra e durante il doloroso dopoguerra, ha accompagnata, per contro, la rinascita della nostra terra durante il periodo più infausto dei governi demoliberali. Ricordiamo che, attenuatosi dopo il 1880 il fuoco dello spirito unitario alimentato da coloro che col sacrifizio e con la fede avevano tenuto a battesimo il nuovo Regno d’Italia, un senso di inerzia e di abbandono si abbattette sulle regioni meridionali, preda di volgari manipolazioni elettoralistiche e di turpi dimenticanze.

Figli di patrioti che avevano riempito i ranghi delle logge carbonare ed avevano impavidamente affrontato le insidie degli intendenti borbonici, questi nostri gentiluomini che avevano compiuto i loro studi nei Licei di Molletta e di Bari e nella Università di Napoli fulgenti dei nomi di Domenico Cotugno e di Gaetano Filangieri, questi nostri gentiluomini, rientrati nelle loro borgate silenziose ed inerti, avevano compreso che non le libere professioni potevano farli degni delle patriottiche tradizioni famigliari ma la reazione viva ed operante alle inerzie governative.

C’erano intorno ad essi boschi striminziti e terre aride e pietrose da redimere, c’erano beni ecclesiastici tarati da arcisecolari abbandoni, c’erano lande deserte e murgiose da guadagnare all’alboricoltura ed alla viticultura.

Ecco il nuovo patriottismo, ecco un campo su cui esperimentare il proprio attaccamento alle sorti dell’economia provinciale che non poteva essere che agricola.

Ed i nostri gentiluomini, forti della soda cultura umanistica appresa nelle scuole superiori, cominciano a dissodare terre ed a piantare mandorli ed ulivi dando vita a tutto un esercito di trasformatori e di apostoli, creando una vera e propria Crociata di redenzione.

Furono essi gli autori veraci delle nuove forme dell’agricoltura della Provincia di Bari, i piantatori di quegli uliveti e di quei mandorleti donde scaturisce l’oro delle nostre contrade.

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Fra questi missionari del nuovo credo bisogna porre senz’altro Vincenzo Ricchioni. Tutto soccorreva alla sua ansia rinnovatrice: la passione degli avi per la terra, l’amore degli avi per la Patria unita e forte.

Se scorriamo le pagine di questa storia familiare che è tracciata su documenti da nessuno raccolti e custoditi, ma ostensibili agli occhi dell’indagatore sagace ed amoroso, troviamo una epigrafe che, fissata sulle mura di una casa di campagna, ricorda ai venturi che un Jacopo Ricchioni aveva lì issata una bandiera di salde virtù domestiche, cullate dalle ridenti offerte di Pomona; troviamo un Don Francesco Ricchioni iscritto alla vendita Palese dei Carbonari e segnalato fra gli attendibili della Polizia borbonica: troviamo infine tappe mirabili di fervido attaccamento familiare all’agricoltura.

Vincenzo Ricchioni, ricevitore del Registro a Bitonto, già fornito di un discreto patrimonio, si sposa con la signorina Ippolita Savino di famiglia benestante e provvista di ottima dote.

Egli si divide fra i campi e la famiglia, risolve gravi problemi di trasformazione terriera, locupleta considerevolmente la produzione. Ulivi e mandorleti, viti e maggesi opime, guardati con occhi d’innamorato dall’attivissimo Don Vincenzo, producono staiate di olio a iosa, tini e tini di uva, sacchi e sacchi di mandorle polpose.

Sorride la ricchezza alla nuova famiglia mentre cresce la figliolanza: Francesco Paolo e Luigi, l’uno avviato all’avvocatura e l’altro alla medicina. E quando questi due figliuoli giungono in porto, egli non si dà riposo: se li coccola con gli occhi questi due giovanottoni dalle spalle quadre e dal cuore d’oro, e persiste nella sua diuturna assistenza ai suoi beni ed ai suoi famigliari. Si sposano le due figlie Marianna e Rachele, l’una con Giuseppe Carbone e l’altra con Alessandro Ambrosi entrambi di Bitonto, affrontano l’arengo professionale gli altri due: il medico si stabilisce a Bari e allarga la sua fama di ottimo sanitario in tutta la Provincia; l’avvocato affronta l’arengo forense ma se ne ritrae mortificato. Lo apprezzano i suoi concittadini che ne fanno il loro esponente al Consiglio Provinciale nel cui consesso egli si afferma come uomo di cultura e di buon senso preparato ad assumere incarichi più complessi e più delicati nel settore politico ed amministrativo. Partecipa così a molte discussioni, è nominato relatore in gravi questioni riguardanti la viabilità e l’assistenza pubblica, prende la parola per imporre le sue vedute di uomo saggio.

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Sposa la signorina Maria Mastromatteo di ottima famiglia palese ed incrementa così il patrimonio ereditato dal padre morto nel 1907. E rinnova, nel nuovo posto di responsabilità, le patriarcali tradizioni degli avi: larga figliolanza e saldo vincolo familiare intorno alla paterna e dolce autorità.

Muore a 49 anni lasciando i figli in tenera età. Ed è qui che il miracolo delle madri pugliesi, fedeli alla memoria del marito e pronte a sostituirlo nella cura e nell’amministrazione dei propri beni, si ripete quasi a fissare per l’eternità uno dei caratteri più salienti degli attributi familiari della razza.

La signora Maria educa i suoi figli all’amore pel lavoro, e solo quando il figlio Vincenzo giunge a giovinezza si vede seriamente confortata nella sua attività amministrativa. Vincenzo diventa infatti uno dei più attivi e competenti proprietari agricoltori di Palo.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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